Cosa può succedere dopo la morte di un cane?

Era il 7 settembre, ore 20:30, quando stavo rientrando a casa dal campo. Agosto era stato un mese estenuante. Entrambi i miei cani, Bonnie e Clyde, erano stati sottoposti a numerosi esami clinici. Clyde aveva sviluppato una paralisi facciale improvvisa, di cui ancora non si conosceva la causa. Bonnie, invece, dopo un improvviso dolore addominale, era stata sottoposta a controlli. I primi esami avevano rilevato un accumulo di liquidi nell’addome e vicino al cuore. Solo più tardi avremmo scoperto che si trattava di neoplasie al fegato e ai polmoni. Il 12 settembre era fissato un consulto con l’oncologo per capire come procedere.

 Quel giorno, dato il caldo soffocante e i problemi di salute dei miei cani, avevo deciso di lasciarli a casa mentre svolgevo le lezioni al campo. Li avevo lasciati tranquilli, senza segni di disagio o dolore. Avevamo giocato, mangiato insieme. Niente lasciava presagire ciò che sarebbe accaduto.

Quando si vive a stretto contatto con un cane per così tanto tempo, si diventa parte di lui, e io avevo sempre percepito quando qualcosa non andava. Due giorni prima, nonostante il caldo, li avevo portati con me al campo per una giornata di divertimento. Dentro di me, sentivo che sarebbe potuta essere l’ultima volta.

 

Rientrando a casa quella sera, Clyde corse subito verso di me, come faceva sempre. Ma Bonnie non c’era. Mi affrettai verso il salotto, e lì la trovai: accucciata a terra, con quegli occhi dolci che sembravano sussurrarmi: “Meno male che sei tornato, non mi sento bene.” Provai a sollevarla e la sentii gelida. Controllai immediatamente le mucose e mi accorsi che erano di un pallido color latte. 

Senza esitare, la presi in braccio, la portai in macchina e corsi verso la clinica veterinaria. Il veterinario di turno, vista la gravità della situazione, decise di procedere subito con una lastra. Il quadro clinico era critico. Anche il prelievo di sangue aveva già rivelato molto: la pressione sanguigna era così bassa che il sangue non usciva neppure.

 

Mi vennero proposti altri accertamenti, ma dentro di me sapevo che quel momento segnava l’addio. Non volevo che i suoi ultimi istanti fossero trascorsi tra mani sconosciute. Guardai il medico negli occhi e gli chiesi se c’era ancora speranza. Lui non poté far altro che confermare ciò che già temeva il mio cuore.

 

Chiamai mio padre e gli spiegai la situazione. Gli chiesi se potesse aiutarmi a preparare un luogo in giardino dove seppellirla. Restai con Bonnie per un po’, sdraiato accanto a lei sul pavimento freddo della clinica, abbracciandola come avevamo fatto per nove anni. Anche in quel momento, i suoi occhi erano così dolci, nonostante la paura. Lei sapeva. Sapeva che era l’ultima volta.

Quando sentii che era arrivato il momento, chiamai il veterinario per procedere con l’eutanasia. Rimasi accanto a lei fino all’ultimo, accarezzandola e sussurrandole tutto il mio amore, tutto ciò che avevo nel cuore. In un attimo volò via, lasciandomi solo. La presi in braccio e la portai a casa.

 

Mio padre stava scavando già da un po’. Non lo ringrazierò mai abbastanza per esserci stato. Da solo non ce l’avrei fatta. Gli spiegai che avevo bisogno che Clyde vedesse Bonnie un’ultima volta, affinché sapesse che non era semplicemente sparita.

 

Non so dove trovai la forza di essere così lucido in quei momenti, quando il mio corpo e la mia mente erano sommersi dal dolore e dai ricordi. Sapevo che prima di lasciarmi andare, dovevo far vedere Bonnie a Clyde, scavare e seppellirla.

 

Portai quindi Clyde fuori, ma capii subito che non era finita. I giorni seguenti sarebbero stati altrettanto difficili. Quando Clyde vide Bonnie stesa sull’erba, si agitò. La annusò dapprima attentamente, poi iniziò a girare freneticamente intorno a lei, come cercando un senso in quello che stava accadendo. Infine, dopo averla annusata ancora una volta, alzò la zampa e urinò su di lei. Quel gesto mi mise in allarme, ma in quel momento non potevo occuparmene. Lo riportai in casa e mi dedicai alla sepoltura.

Dopo la Morte
Tornato dentro, mi sedetti in giardino con un bicchiere di grappa. Guardavo il cielo stellato e ripensavo ai momenti trascorsi insieme a Bonnie. Avrei voluto chiudere Clyde in casa e avere un momento per me, per piangere e realizzare cosa fosse appena accaduto. Ma sapevo che anche lui stava vivendo qualcosa di strano, e non potevo emarginarlo.

 

Clyde era irrequieto, vagava senza meta tra il giardino e l’interno della casa. All’inizio cercava il contatto con me, ma io, perso nei miei pensieri, mi limitavo ad accarezzarlo distrattamente. Avevo bisogno di conforto, avrei voluto che mi stesse vicino, tranquillamente. Ma presto il suo atteggiamento cambiò. Si avvicinava con insistenza, salendo su di me con un corpo teso, le zampe pesanti sulle mie gambe. Non era affetto, non stava cercando coccole. Era un comportamento diverso, quasi un’affermazione di dominanza.

 

Mi alzai, nonostante il dolore. Lo allontanai con determinazione, consapevole che cedere avrebbe significato confermare qualcosa che avrebbe avuto conseguenze più avanti. Poi, andai a letto. Avrei voluto dormire abbracciato a lui, come facevo sempre con Bonnie, ma il suo comportamento non me lo permetteva. Sapevo che accettarlo in quel momento avrebbe innescato dinamiche che, nel tempo, avrei pagato caro.

Chi sono Bonnie e Clyde?
Prima di andare avanti, sento il bisogno di spiegarvi quale fosse il rapporto tra Bonnie e Clyde. Comprendere la loro dinamica è essenziale per comprendere ciò che è accaduto dopo.

 

Bonnie è sempre stata un cane stabile, solido dal punto di vista mentale. Dolcissima ed equilibrata, era una compagna silenziosa. Non chiedeva nulla, ma era sempre presente, pronta a sostenere senza mai farlo pesare. Era il tipo di cane su cui potevi sempre contare. Anche quando non la sentivo, sapevo che c’era. Durante i pomeriggi, quando mi concedevo un pisolino, si metteva vicino a me, vigilando, come se volesse proteggermi. La notte, invece, si sdraiava al mio fianco, e mi addormentavo stringendo la sua zampa o appoggiandola sul suo cuore.

 

Clyde, invece, era più complesso. Un cane con fragilità immense, che grazie a tanto lavoro ero riuscito a migliorare, o forse solo a mascherare. In me aveva trovato una guida e un amico di cui fidarsi ciecamente, e questo aveva reso il nostro legame unico. Molti pensavano che fosse lui il cane dominante, ma chi sapeva osservare attentamente poteva capire che fosse Bonnie a ricoprire il ruolo chiave nella nostra piccola famiglia. Clyde era molto legato a lei, ma con delle riserve. Ha sempre vissuto una sorta di conflitto interiore, il classico “vorrei ma non riesco”. A volte provava a imporsi, ma Bonnie non aveva mai bisogno di reagire. La sua calma e la sua consapevolezza erano sufficienti a farlo desistere. Clyde tornava al suo posto, frustrato dalla consapevolezza di non essere abbastanza forte come avrebbe voluto. Nonostante tutto, erano inseparabili.

Nei giorni successivi alla morte di Bonnie, alcuni comportamenti di Clyde misero a dura prova il nostro rapporto. La sera stessa del suo decesso, il comportamento di Clyde mi aveva già messo in allarme, e sapevo che dovevo ristabilire i ruoli. Non era semplice: mi trovavo a dover mettere da parte il mio cuore e sospendere tutte le interazioni affettuose che avrebbero potuto essere fraintese da lui. Era fondamentale evitare quei comportamenti umani di affetto che, nel linguaggio canino, spesso non esistono. Dovevo mantenere il giusto equilibrio: non dovevo far pensare a Clyde che il mio modo di vederlo fosse cambiato con la scomparsa di Bonnie, altrimenti avrei creato un altro problema.

 

Così, senza dimostrazioni affettuose esagerate, mi concentrai sul prendermi cura dei suoi bisogni e guidarlo con fermezza. Dopo otto anni insieme, queste dinamiche diventano quasi automatiche, qualcosa che non metti più in discussione.

Il Comportamento di Clyde
Uno dei primi comportamenti che cambiò fu il rifiuto del gioco. Clyde, da sempre giocherellone, improvvisamente si rifiutava di partecipare. Ogni volta che lo invitavo a giocare, rimaneva immobile a fissarmi. Inizialmente pensai che fosse dovuto alla paralisi facciale, che gli creava difficoltà a coordinarsi, ma presto mi resi conto che era altro. Quando lo osservai meglio, vidi che era ben piazzato a terra, con il respiro calmo e la coda ferma. Non c’era confusione in lui, sapeva esattamente cosa stava facendo. Se avessi insistito nel cercare di farlo giocare, senza successo, per lui sarebbe stata una vittoria.

 

Dovevo agire in fretta. Non potevo permettermi di aspettare o commettere errori, altrimenti avrei rischiato di compromettere il nostro rapporto. Fortunatamente, grazie alla fiducia costruita negli anni, sapevo che Clyde non mi avrebbe mai fatto del male. Tuttavia, posso garantire che un proprietario inconsapevole avrebbe potuto trovarsi in difficoltà di fronte a un comportamento simile, con il rischio di incorrere in future aggressioni da parte del cane.

 

Ripresi quindi dalle basi:

– Non rispondere alle sue richieste di attenzioni.

– Farlo mangiare solo dopo di me e sempre con il mio permesso.

– Evitare coccole esagerate, limitandomi a semplici carezze e sguardi, senza abbassarmi troppo o eccedere.

– Permettergli ancora di dormire sul letto, ma solo in un angolo, ai piedi.

– Usare poche parole, chiare e dirette, che lui conoscesse bene, senza possibilità di fraintendimenti.

– Mantenere sempre un tono di voce equilibrato ma deciso.

 

Aveva bisogno di sfogarsi, ma il gioco non era più un’opzione. Lasciarlo correre libero in giardino avrebbe creato una distanza tra noi, rendendolo più indipendente. Decisi quindi di correre insieme a lui, nulla di troppo impegnativo. La corsa in natura è un potente strumento per rafforzare il legame nel branco e definire le gerarchie.

 

Sostituii il gioco con esercizi di obbedienza, una disciplina in cui Clyde era sempre stato molto bravo. L’obbedienza, che anni prima lo aveva aiutato a trovare fiducia in me, era la chiave per riportarlo al suo posto. Non si trattava di creare un soldatino, ma di dargli le competenze per affrontare le difficoltà, divertendosi e risolvendo i problemi di relazione.

 

Al primo tentativo, rispose per un attimo, poi si allontanò. Così, gli misi il guinzaglio e ricominciai da zero, come otto anni prima.

I Risultati
Non è stato facile. Non ho avuto tempo di elaborare il lutto per Bonnie. Clyde aveva bisogno di me, ed era malato. Tutto ciò che avrei voluto era stargli vicino, confortarlo, ma sapevo che dovevo guidarlo con fermezza.

 

Dopo la prima settimana, vidi i primi risultati. Clyde stava tornando al suo posto, forse addirittura migliorato. I comportamenti inopportuni cessarono, e per la prima volta si distese vicino a me, cercando il contatto in un modo nuovo. Il gioco riprese gradualmente: i primi segni di miglioramento arrivarono dopo due settimane, e tra la terza e la quarta settimana, Clyde tornò quello di sempre. Credo che lo avrebbe fatto anche prima se non avesse avuto la paralisi e avessimo potuto fare gli esercizi di equilibrio.

Ora, un mese dopo, tutto è tornato al suo posto. Clyde deve ancora abituarsi a stare da solo, dopo otto anni vissuti con Bonnie sempre accanto. Ma il peggio è passato.

Perchè è Successo Questo?
Immagino che vogliate sapere perché Clyde si sia comportato in questo modo.
Bonnie è sempre stata una figura fondamentale nel nostro piccolo nucleo. Senza farlo vedere apertamente, era lei a mantenere l’equilibrio, sia per me che per Clyde. Quando è venuta a mancare, tutto si è spezzato, e Clyde ha iniziato a mettere in discussione i ruoli. La sua agitazione iniziale era sicuramente dovuta al vuoto lasciato da Bonnie. Ha cominciato a comportarsi in modo confuso, a fare cose senza senso, proprio perché, come ho già spiegato, non è mai stato un cane particolarmente forte. Nei giorni successivi, con più lucidità, ha iniziato a mettere in atto comportamenti che, per gli animali, sono perfettamente normali. Tuttavia, non ha trovato in me alcun punto debole su cui fare leva. Se non l’avessi capito, avrei potuto innescare dinamiche di competizione che fanno parte della loro natura. Nella sua mente, tutto andava riconsiderato.

Questo è successo perché, pur trattandoli sempre come cani e non come esseri umani, il nostro rapporto è stato fin dall’inizio improntato sull’amicizia. Non ho mai voluto impormi come capo o padrone, ma ho scelto di guidarli con rispetto e fiducia. Anche se questo può sembrare l’approccio più giusto, non dobbiamo dimenticare che alla fine i cani sono animali, e rispondono a leggi e comportamenti che, per noi umani, possono apparire strani o insensibili. Eppure, è proprio questa la loro bellezza.

C’è chi potrebbe dire che, se fossi stato più autoritario, tutto ciò non sarebbe accaduto. E forse è vero. Tuttavia, preferisco aver vissuto otto anni da complice piuttosto che da padrone. È proprio grazie alla profonda connessione che avevo con loro che ho potuto capire esattamente cosa stava succedendo e come intervenire.

Concludo qui questo lungo racconto, sperando che possa essere d’aiuto a qualcuno. Se vi va, condividetelo, affinché altri non commettano errori. E, quando vi trovate di fronte a comportamenti che non comprendete nel vostro cane, non esitate a chiedere consiglio a chi ne sa più di voi. Rivolgetevi a esperti che vedono il cane per quello che è, senza attribuirgli caratteristiche umane. Qualcuno che capisca che, davanti a sé, ha un essere vivente con emozioni, che va rispettato e guidato con amore e consapevolezza.

Fabio Bracciolini